di Fabrizio Sirica
Un termine che va a braccetto con il mondo del lavoro odierno è “flessibilità”. Per avere industrie più leggere e senza scorte, per poter produrre “just in time” (cioè adeguandosi alla richiesta del mercato in tempo reale) e per ridurre i tempi morti ed essere giorno e notte super produttive, le aziende fanno capo alla flessibilità della manodopera.
“I tempi cambiano”, dirà qualcuno… “Dobbiamo pur rimanere concorrenziali”, affermerà qualcun altro… Il ragionamento in teoria potrebbe essere compreso. In fondo, chi rimpiange la fabbrica fordista in cui il lavoratore alienato fungeva da robot, quando tutti andavano al mare in Liguria quelle due settimane all’anno e solo quelle? Ti sentivi sicuro, sì, ma incatenato.
Purtroppo, come ogni politica liberale prevede, l’obiettivo neanche troppo celato non è certo un mercato attento ai lavoratori, ma il denaro! Negli impieghi flessibili del giorno d’oggi non c’è nulla di positivo per il lavoratore. La flessibilità viene portata al limite, sfocia nell’ingestibile, diventa un palese sfruttamento, è contorsionismo. In nome della flessibilità ci sono padroni che ti assumono e ti licenziano ogni giorno su chiamata o, come nel caso Gucci, con un SMS: “Oggi lavori. Tra mezz’ora devi essere qui”.
Vieni inviato come merce da alcune agenzie, il cui unico obiettivo è lucrare sul tuo bisogno e su quello dell’azienda. Stritolato come un limone, obbligato a ritmi forsennati, fino a che di te rimane poco ed esausto torni a casa, cestinato nelle assicurazioni sociali come disoccupazione, Assistenza, AI nel tempo improduttivo. Questa flessibilità ti ha spaccato le ossa e ti senti depresso, senza speranza, vuoto. Sei sempre sull’attenti, ma senza sapere quando e se lavorerai, senza poter pianificare una famiglia o un’uscita con gli amici, perché magari chiamano, e se non sei tu… “Pfui”, è qualcun altro.