di Pepita Vera Conforti
Ultimamente al mio vocabolario si è aggiunto questo neologismo che spiega bene la frustrazione diretta a certe risposte che capita di ricevere quando affronto alcuni dei temi relativi alle pari opportunità (ma capita anche con altri temi, ovviamente).
Quando si parla di oscuramento femminile nel linguaggio, di mancata applicazione delle regole grammaticali per la formazione del femminile nell’indicare alcune professioni di prestigio e cariche politiche alle quali finalmente oggi possono accedere le donne, ti capita di leggere risposte tipo: “Sono tutti qui i problemi delle donne? E le donne stuprate, allora?”. Quando rivendichiamo l’applicazione della legge sulla parità salariale, la controparte ha buon gioco nel ricordare tutti quelli che non trovano lavoro, la decisione sul tasso di cambio della Banca Nazionale, la crisi economica. Se poi affrontiamo il tema delle carriere al femminile e delle quote, le reazioni arrabbiate richiamano subito al “merito” e alle “competenze”, come se invece rivendicassimo piani di carriera per analfabete.
Davanti a queste e ad altre simili risposte ci si sente prese per delle cretine, come se non fossimo consapevoli che la scelta del linguaggio, le condizioni sociali e le scelte politiche sono profondamente interconnesse. E allora lì a spiegare nel dettaglio i perché e i per come, al limite della pedanteria. Invece dovremmo andare avanti e costringere l’interlocutore a restare sul tema, perché il benaltrismo è una banale strategia dialettica per spostare il piano del discorso su un terreno “altro” al solo scopo di banalizzare quello che stai dicendo e mantenere le cose come stanno, nella totale inazione.
Ora ho anche un nome per smascherarlo!
(Foto: Pegeen Vail Guggenheim, Senza titolo, 1957)