di Jacopo Scarinci
È morto un comunista. Di quelli veri, di quelli che lo erano quando aveva senso esserlo. È morto un comunista che ha sempre difeso il Partito, rigorosamente con la maiuscola, anche e soprattutto quando non era d’accordo. Perché Pietro Ingrao, col PCI, non è stato quasi mai d’accordo.
Non era d’accordo nel 1969 quando all’ordine del giorno c’era l’espulsione dei suoi amici de “il Manifesto”: lui votò a favore, perché, sebbene fossero compagni e sodali, bisognava rimanere nel Partito, nel “gorgo”, non disperdersi. Rimasero amici, dice oggi Luciana Castellina. Perché almeno da tre anni, dal Congresso del 1966, era chiaro a tutti quale fosse la posizione di Ingrao nel PCI: quella del perenne sconfitto.
Non era d’accordo – e figurarsi! – nemmeno nel 1989, quando Achille Occhetto iniziò la “Svolta della Bolognina”, l’addio alla falce e martello, la trasformazione del PCI in un soggetto socialdemocratico, aggettivo che per i Comunisti solo dieci anni prima suonava come una bestemmia. Eppure rimase in quello che diventò PDS, la grande quercia di D’Alema e Veltroni, coordinando la corrente dei “Comunisti democratici”, perché il Partito veniva sempre prima di tutto. E, quando nel 1993 se ne andò, lo fece solo per amore e rispetto: “Vado via, altrimenti finirei per essere un detrito riottoso e separato”.
Quella di Ingrao fu una prima forma di antipolitica. Sempre all’interno del Partito ma mai d’accordo e protagonista di un dissenso a volte pretestuoso, altre volte convinto, Ingrao concepì dentro il PCI mondi che in via delle Botteghe Oscure non sarebbero stati neanche immaginabili. Dipinse affreschi di futuro, pensò battaglie e scrisse tesi congressuali che non erano altro che un treno pronto a schiantarsi su un muro. Ma, in confronto alle tante macchiette che vanno in giro in questi tristi tempi, Ingrao capì che il dissenso può esistere solo finché esiste una casa.
E la sua casa era il Partito. Con la maiuscola.