di Jacopo Scarinci
In fondo è facile dire che Viktor Orbán è un fascista e bollare come disumane le decisioni dei suoi colleghi al governo di Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia.
Facile e incontrovertibile. Il problema è che chi lo fa dovrebbe prima provare a capire perché in Europa è presente, sul tema migranti, una frattura enorme tra Ovest ed Est. Perché, dopo tentennamenti più che prolungati, Germania, Francia e Italia sono arrivate perfino a pensare di modificare gli Accordi di Dublino mentre i Paesi dell’ex blocco sovietico sono restii a ogni forma di collaborazione.
La risposta è di una semplicità disarmante: l’Europa dell’Est è fatta di Paesi che hanno un’identità fragile, ritrovata dopo anni passati da Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, barcamenandosi tra le etnie più disparate, facendo i conti con il proprio passato. Aspettarsi che questi Paesi siano in grado di gestire le migliaia di profughi che ogni giorno hanno bussato e bussano ai loro confini è da anime pure e belle, ma la politica è un’altra cosa.
Se Orbán si è comportato così è perché la maggioranza degli Ungheresi vota lui o gli estremisti di Jobbik. Se il premier Ceco Zeman non ha concesso la disponibilità all’accoglienza dei migranti in arrivo è perché i cittadini dei paesi in cui sarebbero stati ospitati hanno alzato le barricate. Idem dicasi per la Slovacchia, o per la Polonia che andrà alle urne in ottobre e a far da lepre vede il partito di Destra anti-immigrati.
In noi comuni mortali come per gli Stati, più forte è la coscienza e la sicurezza di sé più si è aperti verso gli altri. In un momento dove l’Europa si è suicidata sotto ogni aspetto possibile, dove in Francia l’identità nazionale da secoli bandiera oggi non è più un dogma e molti non ne sono felici (chiedere a Houellebecq e Zemmour), chiedetevi quanta sicurezza e disponibilità possa mai avere chi fino all’altroieri era una provincia dell’impero sovietico.
Un conto sono le belle teorie e gli ideali. Poi arriva la Realpolitik, e spesso son dolori.