di Manuele Bertoli
Quando da sinistra si chiedono maggiori protezioni legali dei lavoratori (salari minimi per legge, condizioni agevolate per arrivare ai contratti collettivi, riduzione del precariato e del lavoro interinale ecc.) in genere da destra la risposta consiste nel dire che queste cose devono essere concordate tra le parti sociali. Di principio è vero, salvo dover poi però constatare che se una delle parti non vuole dialogare o si irrigidisce sulle sue posizioni, questa strada, di per sé preferibile all’imposizione legale, non produce un bel niente.
Nel settore della vendita sono lustri purtroppo che il dialogo è fermo o difficoltoso. Sono anni che si sarebbe dovuto raggiungere un accordo, da un lato con i datori di lavoro pronti a concedere un buon contratto collettivo generale, dall’altro con i sindacati pronti a concedere nuovi orari di apertura. Siccome non ci si è mai arrivati, ecco che ora spunta l’ultima forzatura, la nuova legge sugli orari dei negozi che andrà in votazione il 28 febbraio, la quale chiede maggiore disponibilità d’orario ai lavoratori, ma lo fa in un contesto nel quale non viene concesso nulla in termini di minore precarietà a venditrici e venditori.
Sono molti gli ambiti in cui il lavoro avviene al di fuori dei classici orari d’ufficio, ma spesso in questi casi la gestione del tempo è regolamentata. Non si può, ad esempio, tenere in ballo una persona per molte ore per farla lavorare un po’ al mattino, un po’ sul mezzogiorno e un po’ in serata. Nella vendita purtroppo invece questo accade e la nuova legge, se passasse, peggiorerebbe le cose.
Per uscirne bisogna che le parti tornino a dialogare e trovino una soluzione concordata. La legge su cui voteremo è una scorciatoia a favore di una sola di esse, che tenta di aggirare le legittime esigenze dei lavoratori della vendita. Per questo non va sostenuta.