Salonicco, 28 novembre 2016. Sono le due e mezza del mattino e ho appena terminato di lavorare. Dovrei dormire ma non posso chiudere gli occhi senza scrivere qualche riga della giornata di oggi. Perché una storia non raccontata è una storia persa, semplicemente. E poi non so neppure bene da dove iniziare. Dal principio, Lisa, inizia dal principio.
Questa mattina siamo andati al campo di Khalachori, alla periferia di Salonicco: 350 curdi siriani (quest’estate erano 600) bloccati all’interno di un vecchio magazzino dismesso in mezzo al nulla. Subito mi vengono incontro Ainur, Belfrin e la loro mamma che mi accompagnano dove altri piccoli amici stavano facendo la loro ora di scuola giornaliera al freddo, con sciarpa e berrette, in una scuola all’aperto stringendosi le braccia intorno al corpo. Tutto intorno tante tende a terra, strappate dal vento. Una desolazione quasi totale. Abbiamo fatto scorrere le immagini fatte ai bimbi in giugno, quando erano appena arrivati, subito dopo lo sgombero di Idomeni, e osservando le foto commentavano: “lei è qui, lui è partito, lui è qui”. Ma su una certa fotografia si sono fermati e mi hanno detto: “sai lei non è più qui, sono stati trasferiti in un altro campo. La sorellina appena nata, è morta”. “A-B-C-D..” scandiva intanto la maestra, e i bambini ripetevano. È da cinque mesi che questi bambini imparano l’alfabeto.
Cinque fottuti mesi che si aggiungono ai cinque mesi trascorsi nel fango di Idomeni. Dieci mesi di nulla. Mi vien da gridare: “Signora maestra, non è che possiamo passare ad altro, non è che possiamo iniziare con i mesi dell’anno, i colori, gli animali?” ma so che non è colpa sua. È una volontaria, la centesima volontaria che passa da qui, la centesima che se ne andrà. Nessuno resta qui, tutti vengono e poi se ne vanno, e me ne vado anch’io, tristemente. Loro invece restano qui ancora un po’, a fargli compagnia l’attesa dell’appuntamento con l’Alto Commissariato che deciderà del loro destino. Si va, con il magone. Piove. E sono sole le 11:00.
Proseguiamo per Frakaport, un campo grande che non avevo mai visto e dove ho ritrovato, inaspettatamente, la prima famiglia incontrata a Idomeni. Li ricordo distintamente, la mamma che cucina il pane e che ci invita a sederci con loro. Le figlie con i lunghi capelli neri, sorridenti e un po’ timide. Allora non ci eravamo fermati ma adesso sì, accetto l’invito e entro nella loro tenda. Sono in otto: mamma, papà, quattro femmine e due maschietti, la più piccola ha occhi così belli da far invidia a una regina. Ha solo due anni e l’ultimo lo ha trascorso da profuga. La loro casa è un agglomerato di tende dentro altre tende. C’è la tenda dispensa, la tenda salotto dentro la quale c’è la tenda camera da letto genitori, mentre la tenda bambini dev’essere vicina. Forse, o forse no. Perché questo è un campo strapieno e ci sono ancora tende esterne in cui la gente di notte deve davvero avere freddo. Non che dentro sia caldo. Io tengo giacca e calze, loro no. Ma accendono la stufetta elettrica per farmi stare bene. È tutta disegnata la tenda, con i pastelli. Ma non è che faccia un bell’effetto comunque. Sarà la luce fredda della lampadina. Sarà che loro hanno l’aria così triste, distante, come se fossero altrove anche se sono qui. Sono curdi irakeni della città di Zakho, a pochi chilometri dal confine siriano. Qui nell’agosto del 2014 l’Isis si è scatenato uccidendo almeno 80 uomini e rapendo altrettante donne. Così loro, insieme a molti cristiani sono fuggiti prima in Turchia e poi in Grecia. Adesso aspettano. La loro seconda intervista è prevista per il 22 aprile, tra cinque mesi. La destinazione che vorrebbero raggiungere è la Svizzera, ma prima vorrebbero, possibilmente, trasferirsi in una casa. Mentre mi raccontano queste cose Shalma di sedici anni asciuga i suoi leggings sulla stufetta elettrica, pezzettino per pezzettino. La mamma non sa che fare, che dire. Mi offre l’immancabile the che mi viene servito in dei vasetti riciclati a mo’ di bicchierini. Il thè è buono ma io mi sento parecchio male. “Torni lunedì prossimo? Quando vieni?”. Deglutisco: “Non torno, le mie visite sono brevi, io tra pochi giorni torno a casa.” Sono un po’ deluse, ma ci sono abituate. Anche qui i volontari vanno e vengono. Finiamo per fare il giro esterno del grande capannone industriale: tre tende di Save the Children, docce separate uomini e donne, tre lavatrici. Meglio del campo precedente ma se quello era isolato, questo è davvero totalmente lontano da tutto. Oddio, non proprio lontano da tutto, a meno di un chilometro in effetti c’è un depuratore e d’estate, quando fa caldo, le esalazioni invadono il campo. Quando si dice un posto di merda. Si è fatta l’una.
Torniamo al campo nel quale lavoriamo abitualmente, a Vasilika. Piove già da un po’ e si è formata una bella pozza proprio al centro della spianata di ghiaia che presto assumerà le dimensioni di un laghetto. Il bambino con gli orecchioni sta sempre peggio, i medici del campo dicono che il padre ha rifiutato l’ambulanza, il padre che non è stata mai chiamata. E poi c’è lei che sta male, è incinta di soli due mesi ma ha tante perdite, troppe. In ospedale da sola non ci vuole andare, è lontano e ha paura di non saper tornare al campo. Il marito non può accompagnarla perché hanno due bambini piccoli e non saprebbe a chi lasciarli. Alla fine con lei, sull’ambulanza sale Olga, una giovane infermiera volontaria. L’ospedale a cui sono destinate è a 40 minuti di strada. Noi si continua con la distribuzione del vestiario e a un certo punto arriva lui: magro, occhi chiari, arrabbiatissimo, un fascio di nervi. Vuole vestiti, dice che aspetta da almeno un mese di essere chiamato e che tutti hanno ricevuto tranne la sua famiglia. Ha un pullover leggero, chiama altri a fare da interpreti. Maledice tutti dall’ONU a noi passando per cose che nemmeno immagino. Non è vera la metà di quello che dice ma è esasperato e contraddirlo non servirebbe. Siamo il capro espiatorio del suo malessere e va bene, siamo qui anche per questo. “Le scarpe” dice “ce le ho dalla Turchia. Ho le stesse scarpe da nove mesi!”. Lo calmiamo, ha moglie e quattro figlie sotto una tenda nell’hangar sette. Faceva il muratore, è un curdo siriano del Rojava, Khamishli. Non ne può più. Mi porta in tenda, dalla famiglia. La piccola è bella da copertina: ha due occhi grigioverdi da fare invidia a una principessa. E un sorriso sdentato e boccoli biondi. Alla fine vengono tutti al piccolo magazzino e per mezz’ora provano giacche, sciarpe, cappelli, guanti. Ciascuno trova qualcosa che gli piaccia, con cui gratificarsi. Alla fine se ne vanno tra scuse, ringraziamenti e baci buttati nell’aria. Il potere di qualche vestito riciclato e di un po’ di pazienza. La tragedia degli uomini, quello che li fa davvero impazzire e il non poter fare nulla per le proprie famiglie. Stasera il capofamiglia potrà sentirsi bene: ha procurato la giacca a tutta la famiglia. Sono le 18:30.
Basta si chiude, si va in hotel, cena alle 20. Alle 20:30 arriva Olga direttamente dall’ospedale: niente da fare, il bambino è morto, durante la notte continuerà l’aborto spontaneo e domani potrà fare il raschiamento. “È rimasta in ospedale?” chiediamo. “No” ci risponde Olga trattenendo una lacrima “ha firmato per tornare al campo”. Fine della storia. Due aborti spontanei in una sola settimana, il sistema di controllo delle nascite per i profughi siriani funziona benone: tu mettili al freddo, con un’alimentazione inaccettabile, nell’incertezza totale per mesi e stai sicuro che di bambini ne arriveranno pochissimi. Il gruppo dei volontari va a cena in una bellissima taverna greca. Tra un piatto di feta grigliata e due calamari fritti ci si racconta, si beve, si ride e a un certo punto, qualcuno cita il famoso slogan di Obama: Yes, we can! È immediato, in un lampo il dolore di tutta la giornata si stempera in una battuta e in un progetto assurdo: “dai, facciamoci una maglietta e scriviamocelo, qui in Grecia: YES, WE CAMP!” È una battuta di pessimo gusto in effetti, ma i profughi ci sono abituati, la maglietta li farà morir da ridere, sempre che nel frattempo, non muoiano di altro.
La domanda che sempre mi faccio e vi faccio, e poi chiudo, io, voi, nelle loro condizioni, quanto potremmo resistere senza impazzire?