Una giovane donna impiegata a una pompa di benzina Shell a San Gallo è stata licenziata il Primo marzo, al ritorno dal congedo maternità. Qualche mese prima, ha dovuto assentarsi improvvisamente dal lavoro perché sua figlia è nata prematura. Durante la degenza in ospedale con la neonata, la donna è stata rassicurata a più riprese dal proprio datore di lavoro: sei in congedo di maternità, tutto a posto, evviva. 15 giorni prima di riprendere a lavorare, però, ha scoperto che il suo nome non figurava nelle pianificazioni dei turni settimanali di marzo. E licenziamento fu, al primo giorno utile dopo la fine del congedo maternità. Questa notizia è stata riportata dal Blick e da L’Evénement, quotidiano sindacale romando. E fa capire molto del momento che stiamo vivendo.
Le donne non sono assolutamente protette in quell’autentica giungla che è diventato il mercato del lavoro. Sono costantemente discriminate: a livello di stipendio, di accessibilità e, soprattutto, in caso di maternità. Sono numeri, non persone. Numeri che in ragione di chissà quali “riorganizzazioni” vengono usati come scusa per licenziamenti che, guarda caso, finiscono col colpire sempre più spesso le giovani madri.
Nel 2010 il Consiglio federale elaborò un progetto di tutela salariale da attivare in questi casi. Ecco, diciamo che sarebbe ora di tirarlo fuori dai cassetti e anzi, citando sempre L’Evénement, di iniziare a parlare del diritto di reintegro al proprio posto di lavoro in caso di licenziamenti abusivi come quello della ragazza sangallese.
Senza obbligo di reintegro, tutte le altre sarebbero misure palliative, senza efficacia. E questi comportamenti indegni di un Paese civile vanno combattuti in ogni modo.