Con buona pace di Marcello Foa, ciò che ha motivato gli elettori di Trump sono stati voglia di autoritarismo e, soprattutto, il razzismo. Non è qualche buonista di riporto a dirlo, ma uno studio del Washington Post firmato da Thomas Wood.
In questa accurata analisi del voto, comparato con quello delle precedenti tornate, emerge chiaro come i motivi razziali abbiano avuto una preponderanza non indifferente nella scelta del candidato preferito. Il disinteresse per le minoranze, la xenofobia e il razzismo tout court sono stati protagonisti della campagna di Trump semplicemente perché l’ex tycoon aveva capito con chi aveva a che fare. Di conseguenza, i tasti premuti sono stati quelli giusti. Mentre noi in Europa ci scandalizzavamo per dichiarazioni ai limiti della decenza su disabili, persone di colore, musulmani e messicani, il target di Donald Trump gongolava. Un target, numerosi studi lo hanno affermato – ma non è che ci volessero chissà quali menti –, scarsamente istruito, con un reddito medio-basso, poche prospettive e ancor meno fiducia nel prossimo. Quella fiducia che Trump è stato in grado di costruirsi con la sua crassa volgarità, con le sue battute di pessimo gusto, con la costante rissa verbale da vero bullo.
Il fatto però è che in democrazia, ovunque, un eletto rispecchia chi lo elegge. Pretendere che Trump sia finito alla Casa Bianca per caso e non perché gente della sua stessa risma l’ha mandato lì è inutile.
I “forgotten men”, ok. Il disoccupato dell’Ohio, sì. Ma fondamentalmente Trump è diventato presidente grazie a chi dopo otto anni era stufo di un presidente nero e grazie a chi non avrebbe mai votato una donna. Se poi in tutto questo uniamo la solita sinistra masochista che “tanto Trump e Clinton sono uguali” ecco servito il voto del novembre scorso.