Il mio nonno partigiano, qui giovane soldato di leva.

Idealista (non ideologico), leale, coraggioso. Quando ero bambina mi raccontava continuamente storie di amicizia, di ideali, di separazioni, di freddo, di patimenti, di soprusi, di giovani spaventati, di montagne. Di perdite. Del suo migliore amico fucilato e morto lentamente a pochi metri da lui, che lo chiamava piangendo, e che lui non poteva raggiungere perché i compagni lo trattenevano al riparo per salvargli la vita. Al suo primo figlio ha dato il nome dell’amico. Da bambina lo ascoltavo rannicchiata accanto a lui come si ascolta una storia, attendendo il lieto fine, senza rendermi conto che la sua storia era cristallizzata lì, e che la vittoria nella Storia rappresentava un lieto fine più per noi che per lui. Era segnato dai ricordi. Era come se da quel periodo cruciale e drammatico non fosse mai uscito. Se da quei monti non fosse mai sceso. Molte volte mi sono chiesta se avrei il coraggio che tanti giovani di quella generazione hanno dimostrato, o se per il quieto vivere mio e della mia famiglia farei la scelta più comoda. Non lo so, e il non saperlo mi tormenta. Ma poi guardo i visi di nonni, nonne, bisnonne, prozii e parenti vari che in quegli anni si sono distinti per coerenza e coraggio, scegliendo la strada più difficile. E tutti, dalle foto sbiadite, mi sorridono con fiducia e complicità.
Francesca Mandelli