Oggi è il mio compleanno e ho deciso di dedicarlo all’uomo che
mi ha salvato la vita.
Si chiamava Stanislav Petrov.

Nel lontanissimo ’83 era vestito altrettanto elegantemente, perché indossava
una divisa sovietica e, durante una notte di settembre, in qualità di analista,
era in un bunker militare a sorvegliare degli apparecchi giurassici già per
l’epoca, figuriamoci per noi oggi che smanettiamo con smartphone e droni.
Niente Facebook, niente Tinder o Netflix. Solo dei grossi macchinari pieni di
fili e valvole.
In un bunker. Di notte. Da solo. In Russia. Che palle.
La faccio breve: a un certo punto i macchinari suonarono con
quei vecchissimi tut-tut che noi non sentiremo mai. Si accendevano lucine rosse,
una dopo l’altra. Pac-Man non c’entrava nulla, se non altro perché non esisteva
ancora in Russia. Ogni lucina rappresentava una testata nucleare
americana.
L’Unione Sovietica era sotto attacco.
Stanislav Petrov si cagò addosso. Anche perché lui manco doveva essere lì
secondo la pianificazione, stava semplicemente sostituendo per la notte il
militare di sentinella.
Il protocollo, in questi casi, potete immaginarvelo. Consisteva
nell’alzare il telefono, chiamare Mosca e avvisare che Reagan aveva deciso di
eliminare una volta per tutte “l’impero del male” a colpi di atomica.
KGB e il Segretario generale del Comitato centrale, a quel punto, avrebbero
dovuto impartire l’ovvio ordine di risposta al fuoco, cioè: giù missili
nucleari contro gli USA come se non ci fosse un domani (e per poco il domani
non ci sarebbe stato davvero). Gli States, a loro volta, avrebbero spedito
tutto il loro arsenale verso la Russia per concludere l’opera e spazzare via
l’intera specie umana.
Però Stanislav Petrov, dopo il panico iniziale e un sorso d’incoraggiamento di
vodka, mantenne la calma. Conosceva le apparecchiature sovietiche. Conosceva la
loro affidabilità e… non fece nulla. Aspettò. La base operativa lo chiamò per
chiedergli delucidazioni e lui comunicò che c’era stato un malfunzionamento del
sistema.
Si scoprì solo successivamente che i misuratori avevano rilevato i riflessi di
luce sulle nuvole, scambiandoli per un attacco americano.
Nel frattempo, Petrov si assunse la responsabilità di miliardi di vite umane.
Sia quelle esistenti, sia le vite che sarebbero arrivate nell’immediato futuro
(tra cui la mia).
Ma se Petrov in quella stanza non ci fosse stato, se ci fosse stata una mente più rigida, più militare, più rispettosa dei protocolli, oggi io non esisterei. Grappoli e grappoli di atomiche che esplodono sulla superficie terrestre, in più angoli del pianeta non avrebbero permesso all’essere umano di sopravvivere.
Per un errore abbiamo rischiato l’estinzione e per un altro errore (o meglio: una negligenza) io posso scrivervi e voi potete leggermi.
Stanislav Petrov non ricevette nessuna medaglia, anzi. Fu citato
in una nota di demerito per non aver rispettato le procedure. Si spense in
maggio, malato, in un orribile appartamento di un gigantesco alverare di
cemento. Morì, dimenticato dal suo popolo e dalla sua nazione.
Ma non da me.
Grazie, Stany. A buon rendere. Na zdorovye!

Michele Blum:)