Un’importante scoperta archeologica ci regala un gioiello di inestimabile fattura e al contempo apre uno squarcio in un’età antica in cui uomini e donne soffrivano come oggi.
Nella cintura romana, sulle colline c’è Grottaferrata, il più vasto Comune dei Castelli romani. Come tutti i Comuni che circondano l’Urbe, custodisce ancora nascosti chissà quali segreti. Ogni romano in fondo lo sa, che quando affonda la vanga nell’orto può riportare alla luce un monumento, un tempio o un sepolcro
Ed è quello che capita in uno scavo privato una quindicina di anni fa. I lavori portano alla luce una tomba. Sepolti un uomo e una donna, la donna sulla quarantina e il maschio intorno ai diciotto anni. Qui comincia l’indagine e l’archeologia lentamente strappa le informazioni ai corpi e alle pietre. Dentro il sepolcro sigillato con puntelli metallici, gli archeologi scoprono due enormi sarcofagi di marmo bianco riccamente incisi e lavorati. All’interno due corpi, evidentemente appartenenti all’aristocrazia romana.
I due corpi sono parzialmente mummificati, una pratica non usuale nella Roma di allora e che fa presumere che i due fossero seguaci del culto isideo egiziano. Le iscrizioni ci rivelano i loro nomi, e così per magia, quei due corpi diventano persone: Aebutia e Carvilio, madre e figlio.
Pietosamente riuniti nella morte, che hanno attraversato i secoli per raccontarci la loro storia.
Possiamo immaginarli, diafani fantasmi mentre scivolano intorno agli archeologi, insinuando in loro le giuste ipotesi o la strada da seguire.
È al dito di Aebutia Quarta che gli uomini delle pietre trovano un gioiello fantastico e affascinante al tempo stesso. La sua fattura rimanda quasi sicuramente a un maestro dell’oreficeria imperiale o comunque a una persona abilissima nel confezionare i gioielli tanto amati dalla nobiltà romana. Solo vedendolo si intuisce qualcosa di profondo e strano, quel volto incastonato nel cristallo ha qualcosa di magnetico e torbidamente seducente.

Il minuscolo ritratto è stato inserito nella montatura dell’anello in oro e poi ricoperto da cristallo di rocca. I riflessi ambrati ci riportano quasi una visione spettrale, un viso minuto e affilato, dal naso pronunciato. Un volto che incredibilmente diventa sempre più definito man mano che lo si guarda. Sembra chiamarci dal profondo (de profundis clamavi…) per raccontarci la sua storia, che è sigillata nelle tombe. Quel volto è probabilmente quello dello stesso Carvilio, morto di setticemia o di avvelenamento da arsenico, che la madre in preda al dolore, volle tenere sempre al dito. Un anello pregiato e anche poco usato, perché vista l’età dei soggetti, la madre non sopravvisse a lungo al figlio.
Aebutia reincontrò il suo bambino Carvilio condividendone anche la stagione della morte. In entrambi i sarcofagi sono stati infatti rinvenute ghirlande di fiori estivi, gigli, rose viole, ad accompagnare dolcemente nell’Ade i due patrizi.
A noi rimangono, nel museo di Palestrina, quel meraviglioso gioiello e quel volto che da quasi 2000 anni osserva immoto il buio. Oggi riportato alla luce, sembra fissarci e il disagio è palpabile, tanto particolare è la fattura.
Il bello che ci regala però l’archeologia è lo scavare nella vita delle persone, che come noi soffrivano, piangevano e ridevano. Persone vissute in un periodo dove la morte era compagna giornaliera ma non rendeva per questo meno potenti gli affetti. Ecco perché per noi non è difficile immaginare Aebutia mentre abbraccia disperata il corpo del figlio, mentre con occhi infossati e rossi prega il maestro orafo dell’imperatore di fabbricarle un ricordo del suo bambino che sia magnifico e immortale.
Noi, con umiltà e umanità, esponiamo il volto di Carvilio, come omaggio a sua madre, perché l’archeologia è anche pietà e amore per quei resti che spesso ci raccontano storie incredibili e lontane nel tempo, ma vicine nell’anima.