Per Salvini non sono tempi facili: fra calo della Lega nei sondaggi, processi in corso e figuracce televisive ripetute, il leader leghista sembra aver perso decisamente il piglio da uomo forte. A confermarlo, il fallimentare tentativo di frenare, o quanto meno avere voce in capitolo, sul coprifuoco deciso dal governatore leghista Lombardo Fontana di comune accordo con i sindaci, anch’essi in gran parte del partito di Salvini.
Questi i fatti: Fontana, sentiti i sindaci dei capoluoghi, a maggioranza, ripetiamolo, leghista chiede al Governo di Roma l’applicazione di misure ulteriormente restrittive sul territorio lombardo, il tanto paventato coprifuoco, con chiusura dei locali e divieto di spostamenti dalle 23 alle 5 a partire da ieri. Quando l’ordinanza sta per essere controfirmata dal ministro della Salute Speranza, ecco che Salvini esce dall’angolino buio in cui si è, di fatto, confinato da solo e cerca di fare la parte di quello che vuole contare ancora qualcosa: “Prima di applicare il coprifuoco, voglio capire”, commentava annunciando una riunione con Fontana e gli assessori leghisti. Tirata di orecchi a Fontana, sostenevano molti, “solo una richiesta di maggior coordinazione”, precisava Salvini, decisamente poco convincente, fatto sta che alla fine Fontana firma l’ordinanza, e da ieri in Lombardia è entrato in vigore il coprifuoco. Cosa ci fosse da capire, non è dato saperlo, e che Salvini abbia bisogno di “capire” è il chiaro segno del suo essere stato estromesso da ogni decisione in merito.
Il tentativo di Salvini di avere voce in capitolo, in sostanza, va incontro ad un misero fallimento: troppo forte il peso della crescita dei contagi, tale da far mettere da parte, per una volta, gli interessi di parte e le logiche di partito per giungere a decisioni probabilmente drastiche e impopolari, ma di fatto necessarie per impedire un ulteriore, catastrofico diffondersi del contagio.
Il leader leghista appare sostanzialmente sempre più isolato, con Fratelli d’Italia a rosicchiargli punti su punti, un po’ come succede da noi fra Lega e UDC, incapace di essere decisivo nel dibattito politico e fondamentalmente, politicamente frustrato nel tentativo recente di fare della Lega un partito nazionale, con le ultime elezioni regionali a testimoniare una netta battuta d’arresto del progetto salviniano. La sensazione è che la retorica sovranista abbracciata da Salvini dimostri tutti i suoi limiti di scelta opportunistica, soprattutto di fronte ad un’emergenza come quella del Covid in cui più che mai si percepisce la necessità di sopire i contrasti fra le forze politiche in nome di una comune lotta contro la pandemia. Parlare di migranti e clandestini non paga più come un tempo, e le prese di posizione acriticamente “aperturiste” circa un eventuale lockdown raccolgono ormai pochi consensi di fronte al crescere esponenziale dei contagi: la base salviniana, in sostanza, sembra sempre più restringersi a quelle frange di popolazione più oltranziste, dai no vax, ai no mask fino ai cattolici reazionari.
E le crepe si aprono ora anche all’interno della Lega stessa: lo “strappo” di Fontana e dei sindaci leghisti rispetto alla linea pro-aperture di Salvini è solo l’ultimo degli episodi di evidente malumore di un partito che l’ex ministro degli Interni ha snaturato dalla sua storica linea autonomista e nordista per collocarlo nell’orbita dei sovranisti e farne un partito nazionale, tentativo che le recenti elezioni regionali hanno ampiamente frustrato. Da una parte, il fedelissimo Giorgetti, decisamente stimato negli ambienti politici, viene dato come impegnato a tessere, in Europa, rapporti con il Ppe, in modo da tirar fuori la Lega dall’area dei sovranisti e imprimere una svolta moderata che renda il partito un alleato affidabile in una coalizione di centrodestra priva di elementi radicali; dall’altra, la posizione del leader è insidiata dal presidente veneto Luca Zaia, che continua a macinare consensi, forte di più del 70% dei voti alle recenti elezioni e si presenta sempre più come una possibile alternativa alla guida salviniana.
Salvini, in sostanza, autoestromessosi dal governo, privato della piazza dal Covid e senza un’imminente campagna elettorale da condurre, sembra sempre più isolato, sempre meno influente e autorevole (se mai lo è stato), e decisamente insidiato all’interno dai suoi, e all’esterno nel ruolo di leader sovranista italiano da Giorgia Meloni, il cui piglio molto più istituzionale fa sempre più presa sull’elettorato di destra forse, diciamolo, stanco delle fanfaronate di Salvini e in cerca di una figura politicamente meno pittoresca e più concreta. E sullo sfondo, restano i processi per i casi Open Arms e Gregoretti, che in caso di condanna potrebbero definitivamente segnare l’uscita di Salvini dalla scena politica italiana.