Il mobiletto bar era posizionato nel lungo corridoio percorso da fluttuanti chiaroscuri ma tutto si illuminava quando aprivi la sua porticina: e le bottiglie giocavano alla gibigianna con le accecanti tesserine di cristallo che rivestivano l’interno della Las Vegas dei superalcolici.
Ero abitualmente marcato strettissimo, soprattutto nelle fasi che scorrevano dal Carosello agli sceneggiati storici degli anni ’70 per i quali mamma e papà subivano una particolare fascinazione, soprattutto divorando con ipnotica tensione le puntate de ” Il segno del comando”, dove un enigmatico legame univa Ugo Pagliai a Carla Gravina: L’Ugo un pò troppo accigliato e palloso, la Carla carina ma davvero sin troppo Gravina.
Allora mi defilavo, con i felpati passi della Pantera Rosa , e come ombra furtiva sgattaiolavo dal divano della sala per perfezionare l’assalto allo scrigno delle mie fornicazioni.
Nella primissima fila, rigorosamente schierate come se a governare gli allineamenti dei distillati fosse stato nominato un rigorosissimo caporale di sorsata, rimiravo la erotica sagoma della Kambusa Amaricante, circondata da una miriade di pipette che intrecciavano un ubriacante girotondo; la civettuola Cremidea Beccaro, una crema whisky che cadenzava i miei sogni notturni dentro un ronfare dall’aroma gusto moka ; lo stucchevole Rabarbaro Bergia, verso il quale certo nutrivo una scarsissima simpatia, snobbandone platealmente il contenuto.
Già, quel Bergia iniettava nella chimica degli accostamenti la sciagurata Lucrezia Borgia che tanto somigliava alla mia avvelenante prof di matematica, così invaghita dei logaritmi da propinarteli alla lavagna con un digrignante gessetto al cianuro.
In seconda fila, occhieggiavano il Rosso Antico che regalava riflessi di mora matura colta dai rovi, con la sua fisionomia ancheggiante da liquore provocante e lo Strega, vero stregone da mettere al rogo per via delle ingorde lappate furtive che rischiavano, ingurgitate nella vigliacca clandestinità, di andarti di traverso mettendoti nella condizione del salmone contro corrente, contrariato anche se non ancora affumicato.
Ma il vero Eldorado si condensava nel coagulo delle terze e quarte file, aizzando le voglie etiliche in una ridda di peccaminosi richiami: L’Oro Pilla, onestissimo brandy sin troppo facile per la scontatissima battuta ” Non è un bere da Pirla”, il Sys Cavallino Rosso rampante al palato e schiantante sulle lunghe succhiate e il René Briand che colmava di fantasie il mio immaginario, già traballante di suo, con quel nome da mezzo malavitoso marsigliese impegnato ad aprire le ostriche con una sventagliata di mitraglietta.
E poi, leggermente defilati ma scippabili nella corsa ad elevata gradazione, individuavo i corroboranti collaboranti Zabov e Vov.
A quel punto, già in fase di enfasi alcolica, rivedevo alla moviola il Rosso Volante, lo sfrecciante Eugenio Monti con il suo Vov a 4, incurvato a mitico uovo sul ghiacchio spalmato di zabaione.
Il Don Bairo, in genere, chiudeva la mia vergognosa marcia trasgressiva, benignamente assolvendomi assieme a Cimabue, che faceva una cosa e ne sbagliava due.
Accarezzando la figura amica della grappa Jiulia e schiacciando l’occhio, in segno di futura intesa, a quell’originale di Millerbe che racchiudeva nel suo ventre un rametto fossilizzato, in pratica tutto da ciucciare, cercavo di chiudere la porta del mobiletto bar.
Ciucco tradito, trovavo in genere in quella elementare operazione una serie di mostruose difficoltà e serravo le labbra, nei ripetuti scomposti tentativi, fortemente disturbato da un marcato timbro di Cynar che persisteva sulle mie cianotiche labbra.
Ecco perché, prima di individuare la mia camera che rimaneva , a quel punto, a sud-ovest di Sonora, mi acchiappava la cattiva abitudine di insultare grevemente quel galantuomo di Ernesto Calindri.
Alla fine, trovato il letto dopo un rovinoso rally fra le curve e controcurve rese impossibili dallo tsunami dell’ubriacatura, allertavo comunque le ultime energie per recitare una precipitosa, scombussolata e irrispettosa preghierina che finiva regolarmente con un “Amen” totalmente convertito in un ” Halger”, sublimazione dell’amaro a base di vere alghe marine.