Tra i diari e le memorie dei perseguitati razziali, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, scrittore nato a Torino nel 1919, occupa molto probabilmente un posto di primo piano. Il libro rievoca la allucinante esperienza vissuta dall’autore nel campo di sterminio di Buna-Monowiz, nei pressi di Auschwitz.
Questo lager lo ha accolto, con tutti i crismi dei capestri del filo spinato, sotto la rubricazione di “cittadino italiano di razza ebraica”, dal febbraio 1944 al gennaio 1945.
La lettura procede a fatica, come il greve passo di un mulo stracarico di zavorre che non vorrebbe portare e tanto meno conoscere, lungo un viottolo cosparso di sassi aguzzi e di pietre rotolanti: anno dopo anno, comunque ogni sacrosanto anno, mi impongo questo esercizio doveroso, non imposto ma proposto dalla precisa volontà di reiterare una memoria che è urticante e colma di affanni e di spasimo, dentro la trafittura di pagine che sono realtà e strazio, verità vissuta e ereditato travaglio, sventura subita ed eterna angustia, tortura inferta e inestinguibile angoscia, dolore materiale e piaga morale.
Setacciando inenarrabili vicende attraverso il ricordo, Levi fa rivivere la mostruosità di un mondo infernale, in cui tutto, assolutamente tutto, è desolazione e prevaricazione, squallore ed esasperazione, paura e morte.
Torno alle righe della iniziazione ai riti del lager, dove “si lotta per mezzo pane” e “si muore per un sì o per un no” . Miasmi irrespirabili si levano dalla dimensione di uno spazio irreale, regolato da uno spietato meccanismo frantumatore di ogni attributo umano.
E rivedo Primo assegnato al Block 30, una marcescente baracca di legno dove voci “assonnate e iraconde” gridano “Ruhe, Ruhe!”: silenzio, silenzio che domani ricomincerà il formicolare dei derelitti nella perpetua Babele di ordini secchi, spietati e perentori, in lingue scorticanti e mai udite che non conoscono pazienza.
Giunge la maledettissima ora della sveglia e la baracca “si squassa dalle fondamenta”: dalle logore coperte scosse quasi con folle isteria si alzano nuvole di polvere maleodorante e inizia un corri corri forsennato verso le latrine e il lavatoio.
Muoversi, bisogna muoversi perché non puoi perdere la distribuzione del pane.
Già, il benedetto pane, un micca duro come la traversina di un binario ghiacciato, una fetta che si chiama anche brot, broit, chleb, pain, lechem, keniér. Santo cielo, dentro il mare di prigionieri trascinati da troppi paesi si agitano frenetiche le braccia, a contendersi ” Il sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano al tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua”.
Le pareti del mefitico lavatoio sono percorse da propedeutiche pitture murali che hanno lo scopo di insegnare agli internati come devono comportarsi: la buona educazione soprattutto, nell’attesa di una morte adeguata.
Primo scorge una scritta che istiga alla preservazione del galateo: “Dopo la latrina, prima di mangiare, lavati le mani, non dimenticare”.
E colui che racconta si chiede: “Perché dovrei lavarmi? Starei forse meglio di quanto sto? Piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno di più? Un’ora di più?”.
Ma il Lager è una superba fabbrica concepita per ridurre gli uomini in bestie, schiavi totalmente privi di ogni diritto, destinati a morte quasi certa.
Primo Levi grida a se stesso, così forte da sovrastare i mille vortici di voci che cercano di azzerarlo: “Una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso”.
Si impone allora di camminare ben diritto, senza strisciare gli zoccoli, non tanto per esaudire la inflessibile disciplina prussiana quanto per restare vivo.
Vivo ancora per un poco, vivo per non cominciare a morire prima del tempo.