Dopo giorni di ansia, in attesa delle condizioni che permettessero di raggiungere l’aeroporto di Kabul, con i talebani che battevano i quartieri, casa per casa, cercando attivisti e collaboratori occidentali, 14 bambini e ragazzi disabili, orfani o abbandonati dalle loro famiglie, sono riusciti ad imbarcarsi sul volo del ponte aereo organizzato dall’operazione italiana “Aquila 1”.
Un’operazione che ha portato in Italia circa 5’000 afgani e terminata il 29 agosto.
Questi ragazzi, accompagnati da cinque suore e un sacerdote, (in carrozzina e non autonomi) non sarebbero mai sopravvissuti all’inferno di Kabul. Ospiti presso l’associazione PBK “Pro Bambini di Kabul”, gestita dalle suore di Madre Teresa, e istituita il 7 aprile 2004, che si è attivata dopo l’accorato grido di Giovanni Paolo II “Salvate i Bambini di Kabul” nel discorso di Natale del 2001.
Il centro PBK, diretto dalla missione cattolica intercongregazionale, era la sola scuola in Afghanistan che accoglieva ragazzi dai 6 a 20 anni con ritardi nello sviluppo mentale, alcuni con sindrome di down, spesso abbandonati per strada da famiglie molto povere e incapaci di prendersene cura.
Se non abbandonati questi bambini venivano segregati in casa, nascosti, perché la società afghana vede la disabilità come una piaga; molti di loro sono traumatizzati già nel grembo materno per cui nascono con problemi, malformazioni o qualche forma di disabilità.
L’associazione PBK da subito ha accolto bambini disabili, orfani oppure abbandonati a causa della povertà, con l’obbiettivo di far crescere le loro potenzialità attraverso l’istruzione e l’insegnamento cercando, quando possibile, un’inclusione nel tessuto sociale e gli operatori della scuola, tutti afghani, che prestavano volontariamente la loro manodopera.
La partenza della 5 suore e dei 14 ragazzi da loro accuditi è stata difficile e drammatica; suora Shahnaz, 46 enne pakistana racconta:
“Nessuna organizzazione, dalla Nato alla Catholic Relief Services, se la sentiva di prendersi la responsabilità di accompagnarci all’aeroporto in quanto la sicurezza non poteva essere garantita; solo il 25 agosto, verso le 22.00, un pullman scortato dalla polizia, da padre Scalese e da Alberto Cario della Croce Rossa, sono riusciti ad accompagnarci all’aeroporto di Kabul e siamo riusciti finalmente a partire -la religiosa continua – Sono qui sana e salva ma ogni volta che sento bussare alla porta sento un tuffo al cuore e mi sale il terrore”.
Suora Shahnaz Prosegue con la sua angosciosa storia: “Il giorno seguente la caduta di Kabul tutti erano nel panico e volevano solo partire, si viveva nel terrore, non passava giorno senza che arrivasse qualcuno a chiedere una lettera di referenza a nome del PBK, nella speranza che potesse servire a lasciare il paese”.
Dopo questa drammatica testimonianza il pensiero va ai tanti rimasti che chiedono aiuto per lasciare il paese martoriato, a quelli che riusciranno a salvarsi e a quelli abbandonati al proprio destino.
La Svizzera, per ora, non accoglierà contingenti di profughi afghani. Ignazio Cassis, responsabile degli affari esteri della Confederazione, il 18 agosto, ha detto: “Il Consiglio federale ha deciso di non approvare la richiesta proveniente da varie organizzazioni, di ammissione immediata nella Confederazione di cittadini afgani in fuga”.
Per i socialisti, verdi e varie ONG “la Svizzera non puo’ guardare dall’altra parte”, partiti e associazioni, criticano l’attendismo del Consiglio federale e chiedono un visto umanitario per 10’000 afghani in pericolo di vita.
Il grido di dolore lanciato da Papa nel Natale del 2001 “Salvate i bambini di Kabul”, risuona più che mai attuale e urgente.