Ricordare una donna.
Ricordare che un femminicidio è un femminicidio anche quando ad essere offeso è il corpo di una donna nera, ambientalista, migrante, rifugiata, etiope, trentina.
Ricordare che nelle prime ore successive alla morte di Agitu, i giornali erano così eccitati dall’idea di tinteggiare l’ennesimo #episodiodirazzismo, di cui non era vittima una donna, ma una “Nera immigrata”. Una cosa altra. L’ultimo sesso.
Ricordare di quanto velocemente i media, a distanza di poche ore dalla sua morte, le avevano strappato di dosso il suo essere femmina, sola e indipendente in un mondo di maschi invidiosi e arrabbiati con sè stessi, lasciandole addosso, come ultimo pezzo di veste strappata, solamente l’etichetta della razza, perché attraverso la lente della razza sarebbe stato più semplice nascondere il sessismo di cui era stata vittima fin da subito. Prima dei pastori che in quelle terre del trentino proprio non potevano tollerare di avere tra i piedi, una femmina facesse il loro stesso mestiere, e dopo con il suo assassino che con ogni probabilità, mai e poi mai avrebbe potuto immaginare lesa la sua fragile mascolinità, da una piccola, inutile, stupida donna. Per Dio! Una donna!
Ricordare che siamo donne anche noi, nonostante il peso della razza ci renda quasi impossibile trattare le conseguenze del nostro genere.
Ricordare che una donna nera uccisa da un nero non è un attestato di inciviltà razziale, ma la testimonianza dell’ottimo Stato di salute del Patriarcato nel Mondo.
Ricordare che se ad amm@zzarci è un connazionale, non sono “affari nostri” ma affari di tutti. Perché la vita spezzata di una donna è SEMPRE affare di tutti.
Ricordare che il femminismo senza l’antirazzismo è una confezione di pollo disossato e precotto per gente che non sa più come si morde la realtà.
Ricordare Agitu Ideo Gudeta. Nella sua ora più buia. E metterci una luce sopra. Perché non si vive di sola rabbia.
1 gennaio 1978, Addis Abeba, Etiopia
29 dicembre 2020, Frassilongo, Italia
di Djarah Kan