Ho un debole per Gabriele Mainetti. È uno di quei registi che amo, come Guillermo del Toro o Tim Burton. Perché osa, è selvaggio e divertente, ma soprattutto perché sogna e trasforma i suoi sogni in cinema.
Freaks out è la sua ultima fatica. Io che ero rimasto stranito da “lo chiamavano Jeeg robot”, non potevo esimermi dal vedere, anche se in ritardo, la sua ultima opera. So che ormai è passato qualche mese dall’uscita, e in una società divoratrice come questa, un mese vale anni. Ma parlare di freaks out è come parlare di un cocktail che avete gustato in un romantico e vivace aperitivo serale.
Mescolate un po’ di Tarantino, aggiungete la nostalgia felliniana, un pizzico di dialetto romanesco made in testaccio, l’onirica visione di Del Toro e avrete uno dei film più delicati, assurdi e divertenti degli ultimi anni.
Mainetti è un “piacione”, come tanti i romani, gente che ti intorta, ti impacchetta e ti compra e non sai nemmeno come ha fatto.Complici gli attori, che Mainetti riesce sempre a scegliere con grande sensibilità e naso, Freaks out scorre lasciandoci stupiti e commossi.
Ci piace (alla sua seconda prova con Mainetti) Claudio Santamaria nella parte dell’asciutto uomo-lupo, non possiamo non solidarizzare col nano menomato psichicamente e patito della masturbazione Mario, interpretato da Giancarlo Martini. Al contempo sorridiamo per la vulgata schietta e vernacolare di Cencio, l’albino domatore di insetti, impersonato da Pietro Castellitto, e ci rassicura la paterna e gentile figura di Israel l’ebreo, direttore del circo mezzapiotta, a cui da corpo Giorgio Tirabassi.
Ma superba figura di una struggente profondità, lacerata dalla sua maledizione è la giovane Matilde, la donna elettrica, impersonata da Aurora Giovinazzo. Personaggio di una potenza e un potere giganteschi, metafora di una guerra interna ma anche di un conflitto in cui si dipana la storia, a Roma nel 1943 dopo l’armistizio.

Il circo mezzapiotta (il cui nome evoca una miseria atavica), si confronta con poteri magici e coi nazisti, ma soprattutto con Franz, direttore tedesco del circo Berlin, folle eteromane che riesce a vedere nel futuro e a leggere la caduta del Reich. La storia dei nostri dolci “mostri”, si svolge tra gli esperimenti di Franz, che cerca i “fantastici quattro” per usarli come arma da offrire a Hitler, un convoglio di ebrei deportati in cui è stato preso prigioniero Israel, e una banda di guitti partigiani, “gli storti del gobbo”, una torma di banditi pazzi e ferocemente antinazisti.
Non cercate realismo storico: Freaks out è magia, è fantasia, è fiaba. E nella fiaba mette le ferite e l’orrore di una guerra mai dimenticata, l’astio per un regime che molti portano ancora nel proprio animo a generazioni di distanza. Ferite che sanguinano ancora e che tanti registi, come Tarantino e del Toro appunto, reiterano con le loro pellicole ( tra tutte “ Bastardi senza gloria” e “Il labirinto del Fauno”).
Il nazista, per Mainetti è puramente malvagio, ma anche folle. Mainetti non si piega alla banalità del male della Arendt ma ci racconta che i veri mostri non sono l’uomo peloso e il nano magnetico, ma gli ufficiali delle SS e dei soldati della Wermacht terribilmente privi di umanità e dediti alle più abbiette pratiche.
Come nel rastrellamento del ghetto di Roma, dove vediamo un sergente sparare a un ragazzo down che cerca di fuggire o quando due soldati di pattuglia cercano di violentare la quindicenne terrorizzata Matilde.
La catarsi finale, tra esplosioni pirotecniche e colpi di mitraglia che non sfigurerebbero in “il nemico è alle porte di Luc Besson, sull’assedio di Stalingrado, ci regala anche una conclusione che omaggia Dark Phoenix di Kinderberg. Insomma, un minestrone allucinante che è però saturo di bei sentimenti e soddisfazioni morali.
Mainetti deve molto ai registi che ho citato, ma deve molto anche alla cultura romanesca della battuta laida e volgare, come al mondo circense tanto amato da Fellini.
Un plauso anche alla follia palese e visionaria di Franz Rugowsky, l’attore tedesco che interpreta l’omonimo Franz direttore del circo tedesco. Un folle di qualità, privo di scrupoli e perso dietro al suo sogno, che ricorda il Gary Oldman di Leon, anche lui tossico perso e privo di scrupoli nei panni del comandante della DEA Norman Stansfield.
Mainetti, come in “Lo chiamavano Jeeg robot”, ci spiazza, e ci convince che il cinema italiano ha a ancora un potere visionario e non è relegato ai cinepanettoni o alle commedie romantiche. Mainetti gioca, con noi ma, soprattutto, gioca con se stesso e col suo coraggio suicida nel fare un cinema che sembra folle sulla carta ma risulta, alla fine, magico sullo schermo.