C’è un film che più di tutti porta alla ribalta la malinconia dei soldati. È un film vecchio e polveroso, “La sciantosa” di Alfredo Giannetti. Protagonisti un mostro sacro del cinema come Anna Magnani e un giovane strepitoso Massimo Ranieri.
È il 1971, siamo all’inizio degli anni di piombo, dove terroristi rossi e neri cominciano a dettare la loro ritmica, fatta di bombe e pallottole. E in un’Italia lacerata da una perenne paura della guerra civile, figlia della guerra fredda e feudo statunitense, si dipana questa storia che richiama un’altra guerra, la prima, che chiese un tributo di sangue enorme al paese.
Perché ne parlo? Ho visto le immagini dell’ospedale russo di Rostov, coi soldati feriti in pigiama azzurro, le toppe sul volto, le fasce alle gambe ai piedi, alle braccia. Tutti seduti compiti ad assistere a un concerto, organizzato per sollevargli il morale. Una pratica che è consolidata nei conflitti di tutto il mondo, dove spesso artisti si recano sui teatri di guerra per risollevare il morale alle truppe.
Quei soldatini, quegli sguardi malinconici, quelle faccia con le labbra incapaci di un sorriso, mi hanno fatto immediatamente tornare alla scena del film di Giannetti, appunto, dove la “sciantosa” (derivato dal termine francese “chanteuse” e che definisce non solo una cantante ma una femmina fatale, seduttiva e ammaliatrice) interpretata da Anna Magnani, canta per i soldati.
La canzone è “o sordato ‘nnammurato”di Enrico Cannio, compositore napoletano che visse a cavallo tar ‘800 e ‘900 e che visse quella guerra europea e fratricida. Sto andando lungo lo so, ma è difficile a volte raccontare in sintesi.
Nel film, la Magnani canta appunto per questi soldati feriti, vestita da Italia a rappresentare la patria. Il sipario si apre sul viso espressivo e vivente della Magnani, che osserva quella platea di miseria e carni martoriate, di fasciature e gambe amputate. I soldati sorridono felici, applaudono (chi ha ancora le mani per farlo) osannano questa donna forte e verace. Eppure il sorriso sul volto di lei si spegne lentamente e quegli occhi che sono al contempo, laghi di pace e lame per trafiggere si fanno dolci e tristi. l’Italia-Magnani vede i feriti, i mezzi uomini, la miseria del dolore che è mascehrato da falsa allegria. Lo sguardo sonda l’umanità scartata dalla guerra, parte la marcetta di sottofondo che si ferma subito. La donna guarda ma non canta, si toglie la veste che sta a rappresentare la bandiera, si leva la coroncina dorata e dice a Ranieri, che dirige la bandella improvvisata: “attacca la mia canzone”.
Ed è una Magnani che entra nella storia del cinema con questa canzone che è “o sordato ‘nnammurato”:
“sta lontano da stu core, che a tè vola c’o pensiero,
niente voglio e niente spero, che tenette sempre accanto a me…” La canzone diventa un inno alla pace, alle cose semplici, all’amore, perché levata la retorica della guerra, tolti gli orpelli della patria, quello che rimane sono solo le membra squarciate, le ossa rotte i nasi e gli occhi spappolati.
Ed è quello che rimane negli occhi vuoti dei soldatini russi, che sono figli come tutti i soldatini che hanno visto l’orrore e che ne portano i segni sul corpo, medaglie non volute, tatuaggi di un destino infame.
La “sciantosa”, che diventa immediatamente madre e compagna, capisce il dolore e non ci sta a reiterare la retorica patriottica della guerra. Abbraccia metaforicamente i soldati con la sua canzone malinconica, li culla e li accoglie. La platea ammutolisce, non c’è più allegria, solo una strisciante, sacrosanta malinconia che sussurra “…torna a casa”. Flora, la “sciantosa”, non riesce a terminare la canzone, inizia a piangere mentre gli strumenti continuano a suonare. Gli applausi si chiudono sul volto struggente della Magnani, che si copre la bocca con le mani, quasi a fermare i conati di pianto.
Non c’è sorriso sui volti dei soldati russi coi loro pigiamini azzurri, che cantano insieme agli artisti sul palco. C’è anche qui qualcosa che non quadra, che ci mette a disagio. I cerotti e le bende, i volti imberbi, gli occhi semplici sono gli stessi dei soldati italiani del film, sono gli stessi ovunque.
E se c’è una cosa che può fare male alle guerre, a tutte le guerre del mondo, è la realtà dei suoi figli feriti, degli storpi, dei perdenti, di coloro che tornano a casa, da tempo immemore tenuti nascosti.
Perché le trombe della guerra amano gli eroi e i gesti epici, non soldati mutilati e con gli occhi pieni di lacrime. Facciamoli vedere questi figli feriti, piangiamo per loro e capiamo, ancora una volta, quanto purtroppo è fisiologica e tragica la guerra nella vita dell’umanità, ma anche quanto è umana e naturale la pietà che non deve essere nascosta.