Pasqua del secolo scorso. Percepita: 1340 circa. Domenica delle Palme all’oratorio. Viene allestito un coretto ed un piccolo corteo di giovanissimi della catechesi che sfilino in modo pomposetto con diversi strumenti, aprendo la via della chiesa al Don, addobbato con paramenti festosi.
Suora e catechisti fanno del loro meglio per edurre il manipolo di mocciosi – prevalentemente mocciosE- dalla loro ignoranza musicale. Come vedremo poi, in vano.
Qualche piccola percussione c’è, ma lo stuolo giubilante è prevalentemente composto da flauti dolci soprano, che ogni nonna che si rispetti ha sempre chiamato IL PIFFERO.
Io lo odiavo, il piffero. E odiavo esibirmi. Pensa te, detto oggi fa venire un ironico brivido.
Odiavo il piffero, farmi vedere mentre esercitavo la mia arte ed odiavo vestirmi DA FESTA. I vestiti della festa mia nonna amava confezionarmeli con le sue mani, quindi io decenne indossavo dei tailleur da donna di una certa età, che chiameremo TAILLEURS ANTIANAGRAFICI: gonna a portafogli, lunga sotto il ginocchio, verde acqua. Mia nonna era un drago a cucire ed io non avevo ancora sviluppato una mia opinione in materia di abbigliamento, però concia così sembravo proprio una sessantenne con la pelle bellissima. Non ho scritto Benjamin Button, ma fate conto tipo così.
Ma torniamo al corteo spumeggiante che doveva fare quel piccolo percorso dalla sala della catechesi -dietro la chiesa- fino alla porta principale. E poi dentro, suonando fino all’altare e dileguandosi poi.
Nessuno aveva fatto bene i conti con la durata del pezzo da eseguire (un semplice canone fatto di poche note pur tuttavia di palmizia solarità) commisurato alla lunghezza del percorso coperto dal suddetto Manipolo di bambocce vestite a festa.
Ci mettono in fila a due a due – e già ci vuole un po’ perché i bambini, si sa, ocheggiano mica poco… e si parte.
Dal retro della chiesa sino alla porta principale viaggiamo a due all’ora ed eseguiamo il canone al doppio della velocità.
Siamo all’ingresso: ora arriva il momento dove l’acme del sentimento va donato ai fedeli, in piedi dietro i loro banchi.
Stiamo per entrare ed attacchiamo la stessa melodia per la trentacinquesima volta.
Si gira verso di me, Elisa: si gira verso di me, e col coraggio che può avere solo chi suona il triangolo e non il piffero, dice “AMMÒ?”
AMMÒ, ammò lo diceva solo mia nonna. Sarà stato lo stress, sarà stata la parola in bocca alla mia amica insospettabile (che, d’altra parte, aveva ripreso a suonare il suo innocuo triangolo senza fare una piega), fatto sta che mi prende la ridarella.
Una ridarella, la mia giovanile, che in pochi possono capire o ricordare. Che forse solo Marcella sa con precisione.
Mi prende una ridarella mondiale ma, per non sfigurare, continuo a suonare dentro il mio flautodolcesoprano-PIFFERO.
Ridere dentro un flauto vuol dire emettere scariche di fischi da far venire il tinnitus a Beethoven anziano.
Il coretto ed il corteo entrano in chiesa mentre io rido nel mio strumentino, mandando fischi che nemmeno un arbitro, e ben presto se ne accorgono due o tre amichette che, per la proprietà della contagiosità della risata nel piffero, iniziano a sparare scariche di pressione nel loro FDS.
In quella piccola chiesa entra un gruppo di ragazzine innocenti che dai suoi flauti manda i fischi di satana.
E niente, una bella figura davanti ai miei genitori l’avrei fatta un’altra volta.
Buona Domenica delle Palme a tutti. Togliete quei pifferi ai vostri figli!!!
Francesca Margiotta