Quanto giova al nostro sdegno e al nostro sentimento di impalato smarrimento indugiare sulle cento e cento immagini di una città massacrata e distrutta, nella terrificante originalità di un azzeramento di case che ora non sono che indefinibili cose, magma di sagome sottratte alla normalità, marmaglia e minutaglia di macerie sfiorite al suolo, dentro fumi che alitano il nonsenso della sventura, raccontata sul filo della improvvisa abulia di geometrie sbaragliate?
E che ci sta a fare quel palazzo mezzo annientato e mezzo annerito come il viso di un minatore che risale a riscoprire la portentosa bellezza del sole ?
Perché mai si ostina a sfidare le superatissime leggi della gravità scrollate dalla snervante pulsione di una implosione esausta e svigorita ?
Un enorme edificio sbudellato, groggy come un pugile che invoca il lancio della spugna un attimo prima che esploda l’ennesima gragnuola di cazzotti dall’alto, tutti al di sotto della cintura perché il regolamento della guerra è quello, nessun arbitro a impedire colpi proibiti.
E come si è infilato quell’ordigno carogna che ha merlettato tutto il cornicione della casa rosa, ficcando le dita nelle orbite delle finestre sino a fare schizzare le persiane altrove, verso la strada dove un trabiccolo fumante sbrocca le sue ultime sembianze di entità esistita?
E che ulteriore tremolio in bilico sfida quella scritta commerciale, slabbrata e scompaginata sopra una montagna di calcinacci e di muri smurati, dentro una selva di grumi di calce viva morta da poco, dentro il bivacco di certi travoni che evocano lo sterminio dei giganti nel gioco delle bombe a grappolo?
Erano forse balconi quelle deformate carene di mattoni bucherellati, quasi arrostite da una fiammata improvvisa , così annichilente da lasciare di stucco due patetici vasoni di cemento che non potranno più vantare il tripudio di schiere di gerani colorati?
Certo non ha più anima quella cucina che racconta la favola di un tavolo a quattro gambe amputate e di pentole sbottate come pance di rana dopo la strabevuta di una grandinata di frammenti piombati da un cielo dove perfino le nubi paiono detriti di spazi violentati.
E dall’alto, mamma mia quanto crudele può essere una visione dall’alto: quel quartiere pare un labirinto di abitazioni ridotte a perimetri bassi bassi, tarpame di muri appiattiti a nani, parallelepipedi mozzicati, abbozzi di pareti segate da un fumine che scompone, cinte discinte divise l ‘una dall’altra da strade trasecolate in percorsi traforati , qui e là disseminati da polpette di veicoli spappolati e da cingolati spianati con uno schiacciasassi.
Osservo lo sghembo scheletro di un cascinale tagliato a metà , dove scorgo il caotico sbigottimento di cassetti saltati come tappi fra gli stravolgimenti di una camera morente nel letto che si è messo a recitare il sonno in verticale, non lontano da un armadio scardinato che cigola impudico alle spezzate ante.
La tragica estetica della distruzione propone l’arte della guerra come la ineguagliabile rappresentazione
dello schifo più ripugnante.